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A scuola meno contagio, ma i disagi psichici e sociali sono in forte aumento

E’ uscito su Lancet R-H un importante studio di coorte in trasversale e prospettico sui dati del contagio a scuola in Italia, che dimostra che l’incidenza tra giovani rispetto a quella sulla popolazione generale è decisamente più bassa. Lo studio, aggiornato nei termini della discussione considerando statisticamente anche le nuove varianti inglese e sudafricana, riporta anche i dati dell’effetto delle chiusure delle scuole su bambini, adolescenti e ragazzi e ne documenta i danni psicologici e sociali, impattanti economicamente e socialmente sulla Salute Pubblica globale.

E’ uscito recentemente sulla rivista scientifica “The Lancet Regional Health-Europe” (ultima nata del prestigioso gruppo The Lancet), un importante studio dedicato al ruolo delle scuole nel contagio. Questo studio giunge alla conclusione che non ci sono evidenze che la scuola in presenza abbia alimentato la seconda ondata di COVID-19 in Italia. Si tratta dello studio di coorte in trasversale e prospettico dell’epidemiologa e biostatistica Sara Gandini dello Ieo di Milano, Editor in Chief di Pillole di Ottimismo, e di importanti biologi, medici, statistici ed epidemiologi italiani (Maurizio Rainisio, Maria Luisa Iannuzzo, Federica Bellerba, Francesco Cecconi), coordinati dal medico Luca Scorrano, professore ordinario di Biochimica all’Università di Padova, nonché ex direttore scientifico dell’Istituto Veneto di Medicina Molecolare (VIMM).

Lo studio (qui il documento integrale), effettuato in tutta Italia da settembre a dicembre 2020 e aggiornato, nei termini della discussione, considerando statisticamente anche le nuove varianti inglese e sudafricana, è stato realizzato mettendo insieme database diversi (Miur, Protezione Civile-ISS e ASL). Ha superato la revisione tra pari, la cosiddetta “peer-review” e, lo stesso giorno in cui è uscito, è stato citato dall’importante CDC americano (Center for Disease Control and Prevention) come “referenza fondamentale sulle scuole, in linea con la letteratura scientifica internazionale” che da mesi ‘scagiona’ le scuole nella trasmissione del contagio.

Il paper di Gandini et al. conferma che in quasi tutte le regioni italiane l’incidenza nelle scuole elementari e medie è stata inferiore alla popolazione generale (in media un 39% in meno). Nelle scuole superiori invece l’incidenza è più simile a quella della popolazione generale, ma sempre inferiore: 9% in meno. Tra gli insegnanti e il personale non docente è stata invece riscontrata un’incidenza maggiore. Perchè? Come è giusto quando si osserva un dato non in linea con gli altri che emergono dallo studio, gli scienziati italiani hanno approfondito questo aspetto. La differenza diminuisce quando si tiene conto dell’età e inoltre hanno confermato risultati visti in altri studi: la frequenza dei casi secondari risulta più alta tra gli insegnanti quando il caso indice è un insegnante, dunque questo dimostra che il contagio nelle scuole avviene tra adulto e adulto, ossia tra insegnante e insegnante, ed è significativamente più raro che sia uno studente a contagiare un insegnante. Inoltre, la frequenza di tamponi effettuati per tracciamento è molto più alta che per altre professioni, arrivando fino a 100-200 per ogni caso indice ogni settimana per scuola. Si noti che gli insegnanti in Italia sono circa 900.000 e la quantità di dosi di vaccino somministrate al personale scolastico nel nostro Paese, al 27 marzo 2021, era di 909.533.

Guardiamo il contagio tra gli studenti: per dare qualche percentuale, in Lombardia lo 0.40% di studenti sono stati riscontrati positivi, per gli insegnanti si parla del 2%. Le quarantene degli studenti sono state del 2%, degli insegnanti di poco più del 3%. Il numero di casi rispetto al numero di tamponi effettuati (senza questo dato non si può quantificare qual è la reale frequenza di positività) si è tenuto sotto l’1%. La frequenza di cluster a novembre-dicembre individuati per tracciamento è stata attorno al 5-7% sul totale delle scuole.

L’obiezione più comune è che i bambini sono spesso asintomatici e potrebbero sfuggire i casi. Per rispondere a questi rilievi sono stati realizzati studi in Sicilia e a Firenze. In queste due aree, in molti istituti è stato effettuato sui ragazzi non solo il tracciamento ma anche uno screening a tappeto su tutti, indipendentemente dai sintomi, e ripetuto nel tempo: ebbene, anche facendo tamponi in modo regolare e sistematico e in assenza di sintomi clinici è stata riscontrata un’incidenza bassissima, sotto l’1%.

Guardiamo adesso le variazioni dell’Rt: in Lombardia non è stato minimamente condizionato da apertura e chiusura delle scuole. A Roma le scuole a settembre hanno aperto 10 giorni prima di Napoli, ma la curva è cresciuta prima a Napoli mentre a Roma è aumentata addirittura 10 giorni dopo, a ulteriore dimostrazione che l’apertura delle scuole non è minimamente legata all’innalzamento della curva.

La Campania è stata una regione particolarmente vessata dalle chiusure delle scuole: i bambini e ragazzi campani dalla seconda elementare in su sono riusciti ad andare a scuola, in un anno solare e nell’arco di quasi due anni scolastici, soltanto 30 giorni in totale. Questo studio ha dimostrato che in Campania, nonostante la chiusura delle scuole, la curva della popolazione generale ha continuato a salire.

A cosa è dovuto allora l’innalzamento della curva per alcune classi di età? L’evidenza scientifica, confermata anche recentemente da una pubblicazione su Science, mostra che la classe principale di età suscettibile al contagio è stata sempre superiore ai 20 anni.

Anche sulle varianti sono uscite pubblicazioni importanti: quelle più recenti sono una review su Nature e alcuni articoli su Lancet. Nature (basandosi sui dati della Public Health of England) ha mostrato che nei bambini c’è un rischio inferiore di trasmissione anche con la nuova variante inglese. Gli articoli su Lancet hanno mostrato che nemmeno la prognosi è peggiore con la nuova variante inglese. Guardando i dati della Public Health of England risulta che le stime di rischio indicano che l’associazione con i contagi è la metà nei giovani rispetto agli adulti, sia nel caso della variante inglese che senza.

Come mai, allora, c’è stato questo allarme? L’ISS italiano a marzo 2021 ha diffuso alcuni dati in cui si è osservato un innalzamento che il governo ha imputato all’apertura delle scuole. La Regione Emilia Romagna ha fatto confronti per età: da settembre 2020 a marzo 2021, nella classe di età 10-19 è stato registrato un aumento preoccupante. Cosa è successo? Se osserviamo i dati con attenzione, vediamo un dettaglio cruciale che nessuno ha notato, ossia che in molte regioni i tamponi sono aumentati significativamente tra gennaio e marzo 2021. I giovani sembrano essere stati sovra-campionati, attraverso screening a tappeto nelle scuole, anziché limitarsi al solo tracciamento. In Toscana da gennaio a marzo i tamponi sono addirittura triplicati. I confronti che vanno fatti sono questi, altrimenti i dati non sono interpretabili. Se non si confrontano questi dati, non si possono fare stime attendibili. Per cui, se guardiamo il numero dei tamponi positivi rispetto al numero dei tamponi effettuati per le varie classe di età tra gennaio e marzo, non c’è una differenza sostanziale e i dati non variano nel tempo. Quindi nelle scuole l’incidenza a febbraio è rimasta dell’1%.

Sul contagio e sugli effetti della chiusura delle scuole sono uscite tantissime pubblicazioni interessanti. Una meta-analisi che riassume una decina di pubblicazioni mostra che sotto i 20 anni, la suscettibilità all’infezione è ridotta della metà. Ci sono stati ricercatori che hanno dimostrato che gli studi con un basso rischio di bias/confondimento non hanno riportato un’associazione significativa tra contagio e apertura delle scuole; viceversa, gli studi con modelli e analisi meno affidabili hanno generalmente riferito effetti del ruolo della scuola.

Per dirimere ogni dubbio, sul tema cruciale – il futuro e la formazione delle prossime generazioni – è intervenuto il Centro Europeo per il Controllo delle Malattie, che comparando i dati provenienti da 28 Paesi europei conclude:

1) che il ritorno nelle aule scolastiche non appare essere un motore di contagio nella seconda ondata;

2) che gli insegnanti non sono a più alto rischio di malattia rispetto ad altre categorie professionali

3) che se un bambino viene trovato positivo è molto probabile che il contagio sia avvenuto a casa.

Lo studio ha inoltre evidenziato che bisogna tenere conto che l’impatto sulla salute fisica e mentale e sull’istruzione dei ragazzi derivato dalla chiusura delle scuole ha un bilancio rischi/benefici che appare evidentemente a favore dell’apertura.

Sono inoltre usciti studi di coorte su bambini e adolescenti che mostrano un aumento sia della depressione che dei casi di suicidio. Uno su Jama e uno su Nature, su Cina e Giappone, mostrano un incremento di tentativi di suicidi, ma anche di suicidi, tra bambini e adolescenti. Questi dati li ritroviamo non solo in Asia ma anche in Europa. E’ stato effettuato uno studio di coorte prospettico (quindi fatto bene, non trasversale) che indaga sul cambiamento rispetto ai 18 mesi precedenti e che riguarda i bambini tra gli 8 e i 12 anni in Inghilterra e dimostra che sono aumentati molto i casi di depressione. Un altro articolo, realizzato in Francia sul disagio psicologico negli universitari, mostra invece prevalenza di pensieri suicidi nell’11% degli studenti, grave angoscia nel 22%, alto livello di stress percepito nel 25%, depressione grave nel 16% e alto livello di ansia nel 28%, in particolare nelle donne.

Parliamo, infine, dei danni sociali. Non andare a scuola pesa non soltanto sui ragazzi ma anche sulle loro famiglie e soprattutto sulle donne. Secondo quanto rileva l’Istat, a dicembre 2020 gli occupati sono diminuiti di 101.000 unità: 99.000 sono donne e appena 2.000 uomini. Uno studio realizzato in Olanda dimostra una riduzione del livello di apprendimento nelle famiglie con minore scolarizzazione e/o con genitori non laureati aumentando quindi il divario sociale e il rischio di dispersione scolastica.

Se dunque in Italia e nel mondo non ci sono forti evidenze scientifiche che la chiusura delle scuole in presenza giochi un ruolo cruciale nel contenere il contagio, non ci sono dubbi che questa crei grave disagio psicologico nei giovani e metta in grande difficoltà la società tutta, soprattutto alle donne, nel presente e nel futuro.

Maddalena Loy, giornalista