Incontriamo Chiara Bernardini, psicologa e psicoterapeuta di Fondazione Guzzetti.
Ho frequentato il liceo classico, incentivata dalla famiglia. Era la strada che avevano percorso tutti i membri della mia famiglia. Io avrei preferito più materie scientifiche. Credevo di studiare concetti molto astratti che non avevano un riscontro concreto. Quando è arrivato il momento di scegliere l’università mi sono chiesta: e ora? Che cosa faccio da grande? Una mia carissima amica aveva scelto di iscriversi alla facoltà di Psicologia. Ci siamo iscritte insieme, anche se in due università diverse. All’inizio è stata una scelta un po’ confusa. Man mano che procedevo con gli studi, capivo sempre di più che era la scelta giusta. Ho scelto come specializzazione Psicologia dello sviluppo e della comunicazione.
Come hai conosciuto quindi il consultorio?
Per il tirocinio dopo la laurea. Mi sono trovata molto bene, fin da subito. Dopo poco mi hanno chiesto di avviare alcuni percorsi nelle scuole (elementari, medie e superiori). Dopo qualche anno, conclusa la scuola di psicoterapia, ho avviato anche la parte clinica.
Chiara Bernardini
Che cosa ti piace di più del tuo lavoro?
Mi affascina accogliere le persone, nella loro unicità e nelle loro difficoltà. Ho fatto anche un tirocinio in neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza. Ho incontrato persone con patologie molto gravi. Ricordo un ragazzo che nel bel mezzo del colloquio tira fuori un coltello e lo punta alla gola della mia tutor. Certo, il consultorio non è un ambiente per pazienti così gravi, ma negli anni le difficoltà sono molto aumentate.
In che senso?
Mi accorgo che, sempre di più, alcuni pazienti vogliono attirare l’attenzione e generare preoccupazione nello psicologo, soprattutto nel tempo che intercorre tra una seduta e l’altra. È un modo per richiamare l’altro e ricordargli del rapporto instaurato. Loro ovviamente non sanno che io non ne ho bisogno.
Perché?
Io tendo già a pensare all’altro, ho già in mente i miei pazienti. Non è la gravità del paziente che me lo fa tenere in mente. Non potrei proprio fare nessun altro lavoro. La mia sensibilità e il mio intuito mi aiutano ad entrare in contatto con i bisogni dell’altro.
In che modo entri in relazione con loro?
Ad esempio, collaboro con una cooperativa che gestisce una comunità per pazienti disabili a livello cognitivo e con patologie psichiatriche. L’obiettivo è quello di aiutarli nelle loro autonomie, a partire da piccoli gesti quotidiani. Ho capito che per entrare in relazione con loro mi sarei dovuta interessare in modo autentico alla loro passione: il calcio. Sport che io non avevo molto in simpatia. Ho iniziato a guardare con loro le partite. Il mio interesse per l’altro ha fatto sì che la loro passione diventasse la mia. Il calcio è diventato una condivisione e uno strumento per aiutarli a gestire le emozioni.
Il calcio genera molte emozioni difficili da gestire…
Esatto! Mi sono proprio messa nei loro panni.
Un aspetto importante per te è stata la tua analisi personale. Perché hai deciso di farla e quali risultati ti ha portato?
Ho ritenuto importante lavorare su di me per evitare di finire come il dietologo che ti sprona a fare la dieta, ma è evidente che è il primo ad avere dei kg di troppo. L’analisi è stata l’occasione per mettermi in gioco, per comprendere meglio me stessa e le difficoltà che un paziente potrebbe avere nel chiedere aiuto, anche se lo desidera, perché io per prima le ho vissute. Posso però dire che è stato uno dei percorsi più belli della mia vita. L’analista da cui sono andata per più sedute a settimana, per diversi anni, mi ha permesso di sperimentare il processo di cambiamento e di messa in discussione, con le gioie e i dolori che ciò comporta, caratteristico di un percorso terapeutico.
Quindi è giusto essere coinvolta dalle storie dei pazienti e delle loro emozioni?
Coinvolgimento non significa però fondersi e confondersi col paziente. Il processo di conoscenza di me stessa mi ha aiutata a discernere i miei bisogni da quelli del paziente, riuscendo così ad essere più obiettiva nell’aiutarlo.
Mi lascio coinvolgere, per comprendere cosa provano davvero, ma senza lasciarmi travolgere, altrimenti non potrei essere davvero di aiuto. È necessario ricordarsi dei confini tra sé e l’altro.
Tanti operatori di Fondazione Guzzetti sostengono che uno dei punti di forza della Fondazione sia l’equipe (la riunione settimanale che vede coinvolti tutti gli operatori di un consultorio, anche di settori diversi). E’ così anche per te?
Decisamente! Negli anni l’equipe è stato un luogo di crescita per tutti. Siamo tutti molto diversi per età e formazione. Abbiamo frequentato diverse scuole di psicoterapia. Se all’inizio c’era diffidenza nei confronti del diverso, il tempo e la frequentazione di tutti ci hanno tolto dei pregiudizi. L’equipe permette di avere settimanalmente un confronto stabilito. Del resto, ricercare il confronto fa parte del nostro lavoro.
In che senso?
E’ fondamentale mettere in gioco il proprio punto di vista. Ogni volta che partecipo a un’equipe in Fondazione Guzzetti porto a casa qualcosa di diverso da me e mi sento arricchita da questo punto di vista.
C’è un ambito che, secondo te, dovrebbe essere approfondito tra i servizi offerti da Fondazione Guzzetti?
L’ambito della disabilità. Mi rendo conto che è un mondo molto complesso. Ma molti disabili non hanno neanche risorse economiche per permettersi dei percorsi specifici. Hanno ritardi tali per cui anche le terapie possono essere più difficili. Il consultorio, a partire proprio dal principio di gratuità, dovrebbe aprirsi anche a questi pazienti e trovare un modo per avvicinarsi a loro, così bisognosi di vicinanza emotiva.