Incontriamo Giangiacomo Reali, psicologo e piscoterapeuta di Fondazione Guzzetti.
Mi sono iscritto a Psicologia, quando in Italia c’erano ancora poche facoltà. Abitavo a Genova e ho deciso di trasferirmi a Torino per frequentare i corsi. È stata un’esperienza di formazione e di vita. Sperimentarti fuori casa, lontano da un ambiente protetto come quello della famiglia, è un modo per diventare grandi un po’ più in fretta.
Sei sempre stato convinto di fare lo psicologo?
In realtà, fino a poco prima di perfezionare l’iscrizione, ero convinto che mi sarei iscritto a ingegneria. Per fortuna mi sono reso conto appena in tempo che sarei stato un pessimo ingegnere! La scelta di psicologia è stata sicuramente legata anche al desiderio di capire di più anche di me, di alcuni aspetti non risolti, non chiari, in via di definizione. Come per molti altri colleghi, del resto…
L’esperienza a Torino è stata molto interessante…
Sì, a partire dagli incontri fatti, la convivenza con altri studenti, e la nuova fidanzata – adesso moglie. Un’intesa sin da subito molto forte. Con lei ho condiviso gli studi, abbiamo preparato la tesi insieme, ma poi abbiamo preso strade lavorative diverse. Lei si occupa di assessment in una multinazionale.
Che specializzazione hai scelto?
Ho frequentato il Centro Milanese di Terapia della Famiglia, una scuola ad indirizzo sistemico. Ero stato colpito da un modo diverso di guardare le cose rispetto a quello che avevo studiato all’università. La sistemica è interessata a comprendere non solo ciò che accade “dentro” le persone, ma anche ai fenomeni che avvengono “tra” le persone. A posteriori, adesso, sono molto felice della scelta fatta, direi che mi corrisponde nel profondo.
Com’è stato poi il tuo ingresso nel mondo del lavoro?
Subito dopo la laurea per tanti anni ho lavorato insegnando psicologia in un centro di aiuto allo studio: un lavoro utile per mantenersi agli inizi. Mi ha aperto sicuramente delle strade, tant’è che poi, per qualche anno, ho anche insegnato all’Università. Ma non era un contesto che sentivo mio fino in fondo. In seguito ho cominciato a lavorare in consultorio, e poi – da 2 anni – anche nell’ambito della formazione aziendale.
Ma il lavoro in consultorio non era stato programmato…
No, anzi. Ho incontrato il mondo dei consultori in modo del tutto fortuito: alla scuola di specializzazione ho conosciuto la coordinatrice del consultorio di via Boifava (allora aperto da poco, e adesso confluito all’interno di Fondazione Guzzetti). Avevano bisogno di nuovi collaboratori. Ho iniziato nel 2007 con qualche perplessità: non ero sicuro che facesse per me, ma poi in realtà è stato bellissimo.
Perché?
Ho scoperto un gruppo di persone con grande entusiasmo, alle prese con la sfida di costruire un modo di prendersi cura delle persone. C’era uno spirito di gruppo fortissimo che a distanza di tanti anni ancora resiste. Anche il lavoro in consultorio è stato davvero una scoperta, per la bellezza di potersi confrontare con lo sguardo dei colleghi, e con le domande e le storie delle persone che entrano in Consultorio. Ogni volta puoi re-inventare da capo il lavoro.
Come hai vissuto il passaggio dal singolo consultorio a Fondazione Guzzetti?
All’inizio è stato traumatico, per la necessità di cambiare alcuni aspetti del proprio modo di lavorare. Ma poi i traumi si elaborano e si cresce, si intravedono le opportunità. Nel mio caso, quella di conoscere altre equipe: ho lavorato per qualche tempo come operatore nel consultorio di Sant’Antonio, poi nel 2017 sono diventato coordinatore di equipe in Sant’Antonio e in Restelli, e nel frattempo continuo a incontrare i miei pazienti in Boifava. Ho avuto la possibilità di entrare in nuovi gruppi di lavoro, ognuna con un suo specifico “carattere”. In ognuno però ho ritrovato grandi risorse, a fronte delle medesime fatiche.
Che qualità deve avere un coordinatore di equipe?
L’equilibrio nel riconoscere e valorizzare le risorse che ci sono e le tante cose che le persone sanno fare, da prima del suo arrivo.
Che cosa è più difficile fare come coordinatore di equipe?
Mettere insieme più punti di vista e acquisire una prospettiva più articolata e profonda sulle cose. Una grande sfida è affrontare il muro del “si è sempre fatto così”, senza erigere a propria volta altri muri. Sono convinto che per poter lavorare con le persone devi essere disponibile, in primo luogo, a mettere in discussione il tuo sguardo su quelle persone stesse. E questo per noi psicoterapeuti è fondamentale…
Perché?
Perché può valere per un collega ma anche per un paziente. È inevitabile avere pre-giudizi (positivi o negativi) rispetto alle persone, dare una valutazione immediata e “inscatolarle” nelle tue griglie di classificazione. Ma se non sei disposto a mettere in discussione questa prima lettura, come puoi pensare di accompagnare quelle persone a cambiare il modo in cui vedono sé stesse, la propria storia, le proprie relazioni?
Il lavoro in azienda e quello in consultorio hanno qualcosa in comune?
Direi di sì. Per me lavorare in azienda significa comunque parlare di questioni che hanno rilevanza per la vita delle persone, per il loro benessere nelle relazioni.
Come ti senti oggi, professionalmente?
Dopo un percorso non molto lineare, con alcune esperienze concluse, oggi ho una posizione professionale che mi piace. Sono arrivato a stare comodo nei miei panni.
Qual è la sfida più grossa per Fondazione Guzzetti oggi?
Accreditarsi sempre di più come soggetto che ha una proposta per i cittadini di Milano che va anche al di là del rapporto di convenzione e accreditamento con ATS. Quello è certamente uno strumento con cui Fondazione Guzzetti porta avanti la propria mission. Ma credo sia possibile portarla avanti anche con altri strumenti, ancora in parte da inventare. Certo, occorre acquisire riconoscibilità sul territorio e quindi anche la capacità di mobilitare altre risorse. Ma siamo sulla strada giusta.
Stanno emergendo sempre più nuovi bisogni. Come far fronte a questo?
In questi anni, nei nostri Consultori, arrivano situazioni sempre più gravi, perché è il riflesso di condizioni che mettono a dura prova le risorse delle persone e il loro benessere, anche da prima della pandemia. Ci sono settori sempre più fragili della società, ma c’è anche una ridotta capacità di farsi carico di questi bisogni da parte dei servizi pubblici.
Che cosa comporta questo?
Questo significa che molte persone – con fragilità personali e socio-economiche significative, ma magari non sufficienti a garantire loro un accesso a Servizi (CPS, Neuropsichiatrie, Servizi Sociali, etc.) che sono sempre più “in affanno” – si presentano in Consultorio cercando un’accoglienza, una presa in carico. Ma il Consultorio non è un ambiente strutturato su misura per questi bisogni: non abbiamo la figura dello psichiatra, per esempio, e facciamo fatica a garantire un’elevata frequenza degli appuntamenti, o una presa in carico a lungo termine dove sarebbero necessarie.
C’è stato un incontro in particolare che ti ha cambiato la vita?
Direi quello con mia moglie! Ma se dovessi pensare a una persona significativa per il mio percorso professionale, direi Gianfranco Cecchin, uno dei due fondatori della scuola presso cui ho svolto la specializzazione. A chi gli chiedeva qual era il senso del suo lavoro, quello dello psicoterapeuta, rispondeva che il suo obiettivo era quello di ridurre la quantità di violenza nel mondo. A suo tempo quella risposta mi aveva spiazzato: non era il genere di motivazione che mi sarei aspettato per uno psicoterapeuta. Strada facendo però ho capito che c’era una verità profonda in quelle parole.
Cioè?
Quando il tuo lavoro funziona – e se anche le altre tessere si mettono nella giusta posizione! – ti accorgi di un impatto reale sulle situazioni. Una piccola porzione di mondo è stata sottratta alle logiche della violenza, del potere, del controllo, e le persone stanno meglio.