Oggi incontriamo Sara Ciapponi, psicologa e psicoterapeuta, coordinatrice dell’equipe del consultorio Mancinelli in Fondazione Guzzetti.
“Sono appassionata delle storie. Adoro i romanzi, i film, tutto ciò che racconta la vita di una persona. Ecco perché ho capito molto presto che avrei fatto la psicologa”.
Come è stato il tuo percorso formativo?
“Molto classico. Psicologia all’università e la scuola di specializzazione sistemico-relazionale”.
C’è stato un momento preciso in cui ricordi di aver preso la decisione di studiare psicologia?
“Sì, certo. Leggevo Fromm in quarta superiore durante la lezione di filosofia. E ricordo di aver letto la descrizione delle sedute terapeutiche come incontro tra le persone. Lì ho capito che quel lavoro faceva per me. Non mi sono mai sentita un animale da ufficio…”
Come sei arrivata al consultorio Mancinelli?
“Tramite il tirocinio. Era il 2004 e Mancinelli è diventato il mio primo consultorio di riferimento. Poi sono diventata terapeuta e infine coordinatrice di equipe nel 2017”.
Una storia lunga e ricca. Perché hai deciso di restare a lavorare in consultorio?
“Principalmente per l’equipe. Trovarsi una volta a settimana, in modo fisso e cadenzato, con tutti i colleghi e affrontare insieme i casi più complessi contrasta molto con la solitudine a cui si è condannati, se si lavora solo nel proprio studio privato. C’è anche però una componente sociale”.
Cioè?
“In consultorio incontri storie di una profondità diversa rispetto a quelle che accogli privatamente. Chi viene in consultorio difficilmente accederebbe a uno studio privato”.
Sara Ciapponi
A prescindere dal luogo di approdo, sembra che le persone richiedano maggiormente un supporto psicologico, che si fidino di più della psicoterapia. A che cosa attribuisci tutto questo? È una delle eredità del Covid? Oppure è l’”effetto Fedez”?
“Sono molto colpita che sia necessaria la figura di un influencer per riportare attenzione sul bisogno di salute mentale che c’è nella popolazione. Ma direi senza ombra di dubbio che è tempo di occuparsene seriamente. Dodici anni fa in Inghilterra hanno deciso di assumere 10mila nuovi psicologi perché si sono accorti che spesso la psicoterapia funziona meglio degli psicofarmaci”.
Siamo un po’ indietro in Italia?
“Sì, credo che in parte siamo ancora agli albori dello sdoganamento della psicoterapia. C’è ancora poca attenzione a cosa è vera prevenzione. Penso anche a come nelle scuole portiamo progetti a termine e su singoli aspetti del nostro benessere mentale. Basterebbe fare come in America…”
In che senso?
“Negli Stati Uniti dall’asilo alle superiori l’intelligenza emotiva e la capacità di stare in relazione col prossimo è insegnata nelle scuole, come una materia al pari delle altre”.
Ti piace guardarti attorno e capire cosa stanno facendo gli altri Paesi sulla salute mentale…
“Sì, molto! Mi interessa valutare i nuovi approcci, le sperimentazioni come i dati che arrivano dalla ricerca,e lavorare per integrarli con le nostre conoscenze più “storiche””.
In che cosa siamo più avanti di altre nazioni, almeno in Europa, dal tuo punto di vista?
“Noi siamo molto bravi a fare rete. Fuori dall’Italia, in Paesi diversi, si lavora molto a compartimenti stagni. E noi abbiamo molti servizi presenti sul territorio, il cui accesso è facilitato. Altrove è tutto ospedalizzato, soprattutto nei paesi anglosassoni”.
Torniamo al di qua delle Alpi, e in particolare a Milano. Cosa sta succedendo nella nostra città? Che tipo di bisogni stanno emergendo?
“L’utenza che arriva in consultorio sta cambiando. Le richieste di aiuto stanno cambiando. La fascia d’età dei nostri utenti si sta abbassando. Quelli che chiedono aiuto più spesso sono gli adolescenti e i giovani adulti. Un’altra categoria importante è quella degli over 60, che arrivano con un vuoto sociale enorme, causa di una forte depressione. Il problema però, in ogni caso, è la complessità delle richieste. Le persone arrivano con storie già molto aggrovigliate. Avrebbero avuto bisogno di un accesso molto prima”.
Come mai non si chiede aiuto in tempo?
“L’isolamento sociale fa sì che si ritardi l’accesso alla richiesta di aiuto. La nostra sanità del resto parcellizza: ognuno fa un pezzettino e nessuno tiene insieme l’omogeneità della persona. Chi è in grado davvero di prendere in carico tutto il sistema di una persona? In consultorio puntiamo molto ad avere una visione di insieme dei nostri pazienti”.