Incontriamo Stefano Pagani, psicologo e psicoterapeuta di Fondazione Guzzetti.
Sono appassionato di natura, sin dall’infanzia. Con gli studi superiori, dal terzo anno ho cominciato a studiare filosofia e ha cominciato a maturare in me l’interesse per lo studio del pensiero dell’essere umano. Col passare del tempo ho capito che lo studio della mente, in senso clinico, faceva per me. Così mi sono iscritto a Psicologia in Bicocca a Milano. Per i primi anni però ho continuato a chiedermi che cosa stessi studiando: molti costrutti teorici apparentemente distanti dallo sguardo più clinico. Perciò durante gli studi ho fatto richiesta come volontario all’Ospedale San Carlo di Milano e presso la Fondazione Sacra Famiglia.
Che tipo di esperienze sono state?
Altamente formative, educative. Dopo la laurea e l’esame di stato ho svolto il tirocinio nell’unità operativa di psicologia dell’Ospedale San Carlo e ho cominciato a lavorare in Sacra Famiglia, dove sono stato assunto nel 2006. E’ stata un’esperienza molto lunga, perché l’ho conclusa nel 2020. Nel frattempo ho fatto il concorso per la scuola di specializzazione, una storica scuola milanese di derivazione universitaria, la cui parte prevalente era certamente il tirocinio, che ho svolto in Ospedale. Lì ho maturato molte esperienze anche in ambito psichiatrico e ho lavorato per alcuni anni come libero professionista presso la comunità riabilitativa psichiatrica dell’ente.
Che cosa ha imparato in quegli anni?
La Sacra Famiglia aveva (e ha tuttora) diverse comunità sul territorio. Ho imparato a lavorare con persone con disabilità fisiche e psichiche, pazienti con doppia diagnosi, ma candidabili a una vita il più possibile autonoma e normalizzata. Ho acquisito una formazione sulle tossicodipendenze e un master esecutivo sulle strategie terapeutiche e comunicative. Ho vissuto una settimana presso la comunità di San Patrignano, un’esperienza umanamente molto intensa. Ho sviluppato competenze cliniche in Ospedale grazie alle numerose opportunità che mi sono state offerte.
Nel 2012 conosce Fondazione Guzzetti…
Sì, in realtà non era ancora una Fondazione. Ho conosciuto Michele Rabaiotti, attuale direttore di Fondazione Guzzetti, allora direttore del consultorio GBM (Gianna Beretta Molla) di via Boifava. Volevo avvicinarmi di più alla clinica in senso puro e fare davvero lo psicoterapeuta. Così ho lasciato il San Carlo, ho tenuto il lavoro presso la Sacra Famiglia e ho cominciato il lavoro di clinica in consultorio. Dal 2019 ho cominciato a lavorare anche per il Centro Consulenza per la Famiglia di via Strozzi Dal 2020 ho abbandonato anche la realtà della Sacra Famiglia. Gli ultimi anni sono stati segnati da un momento di grande transizione e cambiamento, anche personale…
Perché?
Nel 2016, con due meravigliose figlie, una bimba di 5 anni e una di 14 mesi, mi sono separato. A settembre 2020, nonostante l’anno famigerato del Covid, mi sono sposato e lo scorso luglio è arrivato uno splendido bambino. Siamo una ciurma davvero interessante, a “configurazione arricchita”, come amo definirla. Oltre al lavoro e a un’intensa vita personale, ho anche molte passioni extra lavorative.
Ad esempio?
La musica e l’arte. Mi affaccio al bello con un puro approccio estetico e il desiderio di respirare la bellezza. Pur non essendo estremamente competente, sono appassionato di pittura, scultura classica e contemporanea. Suono la batteria in una band di amici. Amo la moto e ho ottenuto anni fa il brevetto di sub, sebbene prediliga sempre l’apnea subacquea, antica passione tramandatami da mio padre.
Con una vita così intensa, il Covid deve essere stato un momento molto impegnativo per lei. In che modo l’ha affrontato, da uomo, da padre, ma anche da psicoterapeuta con i suoi pazienti?
Il Covid è stato un catalizzatore di fatiche, di fronte al quale molti hanno risposto con una reazione che definirei pseudo depressiva: mancanza di energia, mancanza di spinta a fare le cose che abitualmente si sono sempre fatte, insomma una risposta di “disagio” a una condizione di “disagio” collettiva, pertanto anche adattiva a una situazione decisamente straordinaria. Se manca la voglia, ma anche la capacità di fare le cose, non è patologia. Questo non deve farci pensare che siamo problematici.
E allora cosa fare?
Darci la possibilità di un tempo, con un’apertura di credito non giudicante. Per questa ripresa occorre una quota di fatica di sforzo per rimettersi in pista, concedendoci un principio di “gradualità”. Con questa prospettiva, le persone si sentono spesso sollevate, comprese, accolte.
Tante persone hanno fatto un passo importante in questo anno, spesso dettate dalle esperienze individuali. Ma sembra che i ragazzi adolescenti siano rimasti bloccati dalla pandemia.
Quella della socialità è un problema molto importante. Il senso di impotenza che hanno provato e che tuttora provano i ragazzi è immenso, spesso additati quasi come potenziali “untori”. E’ stato monumentalizzato l’isolamento sociale e relazionale. La cosa più auspicabile è recuperare livelli soddisfacenti di funzionamento. Un esempio sul fronte scolastico: in Olanda con la didattica a distanza è stato registrato un crollo nei livelli di apprendimento, a prescindere dal grado di impegno profuso dai ragazzi: questo ribadisce che il contesto di apprendimento è la scuola e non può esserci un suo degno sostituto.
Un consiglio per i prossimi mesi?
La presenza ha un valore unico, ci fa bene: facciamo di tutto per favorire incontri in presenza, nel rispetto delle norme. Usciamo, godiamo delle relazioni, anche quelle poco significative, stacchiamoci un pochino dai mezzi digitali. Farà bene a tutti, grandi e piccoli.