Ogni giorno, gli operatori dei nostri Consultori incontrano le persone e le loro storie. Hanno continuato a farlo in tutti questi mesi di pandemia e proprio adesso, quando la parola d’ordine sembra essere quella del ritorno alla normalità, si trovano a fronteggiare un’ondata di nuove richieste. I numeri sembrano parlare chiaro: in alcuni consultori fino all’86% di nuovi accessi in più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. In tutti, l’aumento inevitabile dei tempi di attesa. Ci sarà certamente bisogno di analisi approfondite, per ordinare e dare senso a questi dati e alle domande che portano con sé: quali “nodi” del tessuto sociale hanno retto meglio e quali si sono strappati? Perché così tanti adolescenti e così tante donne?
Nel frattempo, però, possiamo iniziare a guardare le storie.
Ci sono le “storie interrotte”: traiettorie di vita come tante, che inciampano su un ostacolo imprevisto e imprevedibile.
Come quella della 28enne di talento che aveva accettato, prima della pandemia, un lavoro presso un’importante azienda, ben consapevole che sarebbe stato stressante e impegnativo. Era certa, tuttavia, che le sarebbe toccata anche un’altra forma di retribuzione, accanto a quella monetaria: far parte di un gruppo di persone come lei, giovani e ambiziose, con le quali condividere le fatiche ma anche l’orgoglio di un impegno quotidiano così alto. E una birra tutti insieme, dopo aver fatto tardi in ufficio. Poi è arrivata la pandemia, e sono rimaste solo le lunghe ore davanti al computer, le interminabili riunioni su Teams, una casa abitata solo da lei e sempre più simile a un incrocio tra un ufficio e un bunker antiatomico. Niente condivisione, niente aperitivi. Dopo un anno così, adesso si sente prosciugata, fisicamente ed emotivamente. Piange sempre.
Un’altra è quella della ragazza di 20 anni, che dopo una vita passata a studiare e ad allenarsi, sempre performante, sempre rispondente alle attese degli altri, aveva pianificato di prendersi, dopo il diploma, un anno solo per sé, finalmente: un anno per viaggiare all’estero, sottratta alla gabbia degli obblighi, un anno nel quale far “respirare” i propri sogni e progetti. Lockdown dopo lockdown, mentre le frontiere si chiudevano, l’anno sabbatico dei suoi sogni si è lentamente ma inesorabilmente trasformato in un anno di vita sospesa, senza prospettiva. La convivenza forzata con genitori da cui si è sentita, via via, sempre più distante, ha fatto il resto. Ora si sente apatica, non si riconosce più allo specchio.
E poi ci sono le storie che “zoppicavano” già da prima, e che – nella costante emergenza e nel vuoto relazionale della pandemia, quando vengono meno mille piccoli ancoraggi alla normalità – hanno iniziato ad avvitarsi su sé stesse.
Come quella del professionista 50enne, che a dispetto della facciata di successo e di una vita familiare apparentemente appagante, si portava dietro, come una zavorra, una storia personale dolorosa, segnata dalle violenze e dall’alcolismo. In quest’ultimo anno la pressione del lavoro è rimasta invariata o forse è persino aumentata, mentre non ci sono più le trasferte, gli incontri con i clienti, gli obblighi sociali – faticosi a volte – che però costringono a prendersi cura di sé. Si sente depresso da mesi e ha iniziato a bere. Non sa descrivere a parole la sua sofferenza e non sa nemmeno dire quanti bicchieri gli servono, ogni giorno, per sopportarla.
O quella della ragazza che lotta da una vita contro lo specchio, contro un’immagine di sé che non è mai all’altezza. Poca autostima e una relazione affettiva che non va da nessuna parte. Aveva affrontato la pandemia meglio di come avrebbe creduto, pur vivendo da sola, facendo affidamento sulle proprie forze e su risorse che non sapeva di avere. Ma ora, proprio quando l’emergenza sta rientrando, arriva improvviso il dubbio che rode come un tarlo e che la fa nuovamente precipitare: e se in realtà avessi usato l’obbligo al distanziamento sociale come alibi? Una scusa per giustificare a me stessa la mia incapacità relazionale?
E poi ancora la donna angosciata per il figlio adolescente ritirato da scuola e dalle relazioni, al quale non riesce neanche più a raccontare un’alternativa possibile e credibile (quale scuola? quali relazioni?).
O la coppia in procinto di separarsi, improvvisamente congelata dalla pandemia (e dalla perdita del lavoro) in un continuo doloroso addio, nel quale le recriminazioni e le frustrazioni di entrambi sfociano in interminabili litigi.
Dietro alle astratte e generiche definizioni di “ansia” e “depressione” – le parole passe-partout con le quali riassumiamo le conseguenze psicologiche della pandemia – ci sono i mille variegati strascichi di un anno vissuto in uno stato di costante e generalizzato allarme, i mille modi in cui eventi epocali e globali si sono intersecati con le vite di ciascuno di noi.
Come esseri umani, siamo giustamente fieri delle nostre capacità reattive e di adattamento, della flessibilità che ci consente di far fronte all’inedito e allo straordinario. Oggi, l’emersione di tutto questo dolore e di tutta questa fatica ce ne ricorda il costo.
Giangiacomo Reali, psicologo e psicoterapeuta di Fondazione Guzzetti