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Vera Nardo – dai diritti civili al lavoro con gli adolescenti

 Incontriamo Vera Nardo, psicologa e psicoterapeuta di Fondazione Guzzetti.
Il 2020 è stato un anno difficile per tutti.
La pandemia ha cambiato il tuo modo di lavorare?

Dopo il primo lockdown ho ritenuto importante tornare a lavorare in presenza; occupandomi tanto di adolescenti, ritenevo indispensabile offrire loro la possibilità di venire in consultorio, dove poter parlare nel rispetto della privacy e offrendo loro l’opportunità di uscire di casa. Anche per me è importante incontrare le persone fisicamente e potermi confrontare dal vivo con i colleghi. Mi sembra molto salutare anche il fatto di poter separare il tempo del lavoro dal tempo della casa e della famiglia. Il lavoro in presenza in consultorio è stato reso possibile da un rigoroso rispetto dei protocolli anti Covid. I nostri spazi consentono di incontrare le persone in sicurezza. Ho però imparato anche ad utilizzare tutte le piattaforme online e a sperimentare la comodità di poter fare riunioni e colloqui anche in situazioni di distanza e isolamento.


Vera Nardo

Mi sembra che per te contino molto le relazioni e la possibilità degli spazi di socialità. E’ giusto?

Sì. Ho due figlie che vanno alla scuola primaria e sono grata per ogni giorno di scuola. Per fortuna da settembre non hanno fatto neanche un giorno di quarantena. Alle 16.30 escono contente di tutto ciò che gli insegnanti e i compagni possono offrire in termini di apprendimenti, relazioni, emozioni. I loro insegnanti hanno saputo gestire questa condizione in modo sano, poco ansiogeno, con tante idee creative per fare scuola anche con la mascherina e il distanziamento. Oltre alla scuola poi non hanno mai smesso di fare atletica; anche questo è stato sicuramente un punto di forza.

Parlaci della tua formazione.

Dopo la laurea in Psicologia, ho frequentato un master di Counselling sistemico relazionale, che mi è piaciuto molto. Subito dopo mi sono iscritta al corso di specializzazione presso il Centro Milanese di Terapia della Famiglia e nel 2007 sono arrivata al consultorio di Boifava per il mio tirocinio. Intanto stavo già lavorando per un progetto di psichiatria domiciliare.

In che cosa consisteva questo progetto?

Si chiamava Piano Urbano, un progetto innovativo nell’ambito della salute mentale: si trattava di attività riabilitative, andando al domicilio di pazienti psichiatrici adulti. L’obiettivo era anche quello di accompagnare sul territorio queste persone e vivere con loro momenti di quotidianità, ampliando autonomie e opportunità di espressione e piacere. Un lavoro molto impegnativo e faticoso, ma altamente formativo.

Il tuo impegno però non finiva qui. Eri molto attiva anche in un’associazione di volontariato…

Sì, sono stata volontaria al Naga per circa 10 anni. E’ un’associazione che si occupa di diritti per immigrati irregolari e richiedenti asilo a Milano. A differenza di altre associazioni per immigrati, il Naga non offre solo servizi di ambulatorio medico, ma sostiene anche battaglie politiche per i diritti di queste persone. Sono arrivata al Naga per fare esperienza clinica come psicologa, ma nel tempo ho fatto mia anche la dimensione più “politica”…

Com’è nata questa tua passione politica? In casa?

In casa ho sicuramente appreso la capacità di riflettere sulle cose, di interrogarmi su ciò che accadeva nel mondo intorno a me. Un’altra esperienza formativa importante per me è stato il periodo dell’università che ho svolto a Padova. Ero fuori sede e mi sentivo autonoma nella gestione del mio tempo. A Padova ho conosciuto l’associazionismo, facendo l’insegnante di italiano in una scuola per stranieri; in quegli anni ho avuto anche l’opportunità di fare un’esperienza di volontariato nell’ex-Jugoslavia e infine ho fatto la mia tesi di laurea in psicologia sociale, occupandomi del tema dell’identità delle donne musulmane immigrate in Italia.

Se dovessi trovare un principio, tra tanti, che hai appreso in quegli anni, quale diresti?

Direi che la psicologia non può fare molto quando c’è una situazione di deprivazione dei diritti. Sicuramente la prima cura è il riconoscimento in termini di cittadinanza e opportunità sociali, poi si può fare psicoterapia.

Torniamo al consultorio Boifava, di Fondazione Guzzetti…

Il consultorio di Boifava è stato sin dall’inizio un luogo molto accogliente per me. E’ stato subito molto semplice percorrere il corridoio ed entrare nella stanza dell’equipe. Quando ho iniziato a lavorare qui, il consultorio Boifava non faceva parte ancora di Fondazione Guzzetti. Questo passaggio è stato molto faticoso per tanti di noi. Solo col tempo abbiamo scoperto che fare parte di una Fondazione è una grande opportunità. A me piace molto il lavoro di coordinamento del comparto scuole perché mi porta a interagire con colleghe di altri consultori. Mi piace guardare cosa fanno gli altri e mettere insieme le risorse.

L’equipe, ossia le riunioni settimanali che svolgete con la presenza di tutti gli operatori del consultorio, è uno degli aspetti rilevanti di Fondazione Guzzetti. E’ così anche per te?

Sicuramente l’equipe è un’occasione preziosa perché discutiamo insieme dei casi. Sin da quando ero tirocinante se avevo un pensiero o una domanda, potevo esporlo serenamente ed era motivo di approfondimento per tutti.  Non amo lavorare da sola. Anzi credo nell’importanza del lavorare insieme, in equipe, in rete sul territorio. Mi piacerebbe che Fondazione Guzzetti non perdesse mai il legame con il territorio e che si conoscesse sempre di più il lavoro che ogni giorno facciamo nei consultori. Siamo un servizio accreditato ATS, un servizio pubblico per la comunità, le persone del quartiere: questo è un grande valore per me. Se una persona mi chiede aiuto o consiglio per un amico, io penso subito al consultorio.

La scuola diventa il tuo ambiente privilegiato per svolgere la tua professione di psicologa e psicoterapeuta. Perché?

Nel consultorio di Boifava sono stata sin da subito coinvolta nel lavoro nelle scuole, affiancando colleghi più esperti. Facendo pratica, mi sono resa conto che quello che mi piace davvero – e credo di saper fare meglio – è lavorare nelle scuole medie, con ragazzi e ragazze preadolescenti. I bambini delle scuole elementari sono sicuramente più sorprendenti, più grati, più partecipativi. Ma con i ragazzi è tutto molto più stimolante e rapido. Io mi ritengo una persona molto veloce 0e nelle scuole medie il mio ritmo è funzionale.

In che senso?

Cerco di ingaggiare i ragazzi sul piano della sfida e stuzzicare la loro curiosità. E’ un’età molto bella, piena di fatiche ma con aspetti emotivi molto forti. Mi affascina il lato profondamente evolutivo: a questa età si “gioca” un po’ tutto il futuro. Se si incontrano adulti di riferimento validi, la vita può prendere una piega di sviluppo e identificazione sana. Altrimenti è molto probabile che le difficoltà aumentino e si generi sofferenza. Mi incuriosisce molto vedere i ragazzi nelle loro relazioni con adulti significativi, i loro insegnanti. Sono figlia di un’insegnante che ha amato molto la scuola, l’insegnamento come occasione di socializzazione e crescita. Lei certamente mi ha insegnato l’amore per la scuola, per la parte più educativa della scuola.

Raccontaci un progetto nelle scuole che ricordi con particolare interesse…

Ero in una scuola media nella periferia di Milano, con la mia collega Ilaria Nascente. Il progetto si chiamava “Bravi a litigare”. Gli insegnanti ci avevano chiamato per aiutarli a gestire i conflitti che nascevano in classe tra gli studenti. Abbiamo proposto agli insegnanti di fare prima degli incontri formativi con loro. E’ stato importante prima riflettere con i docenti sul loro modo di vivere il conflitto: erano spaventati dai conflitti percepiti come scontri in cui ci si faceva del male e che non lasciavano spazio alla collaborazione. Molti di loro ci dicevano che dai litigi preferivano scappare, privandosi della possibilità del confronto.

E come è andata avanti?

Con i docenti ci siamo avvicinati al fatto che il conflitto è un’occasione di apprendimento e crescita se vissuto in modo costruttivo…e così lo abbiamo trasmesso ai ragazzi. L’obiettivo non era quello di ridurre i litigi tra compagni, ma fare in modo che i litigi portassero maggior consapevolezza di sé e degli altri e che si riducessero gli episodi di violenza. Insomma, arrivare a vivere un litigio buono, iniziare a litigare bene. Certamente aver incontrato insegnanti che hanno accettano la sfida di mettersi in discussione sulle loro premesse e paure è stato un elemento rilevante e un grande vantaggio. Ci hanno chiesto consigli. Ad esempio: dobbiamo parlare con i ragazzi dei loro litigi? Abbiamo quindi condiviso l’importanza di darsi un limite nella discussione in classe, focalizzando il confronto soprattutto sui bisogni reciproci e le emozioni in gioco nel litigio. E’ importante offrire ai ragazzi il tempo della riflessione e non tanto portarli ad un accordo in breve tempo. Non si tratta di non litigare più ma di farlo con maggior capacità di ascolto e rispetto per sé e per l’altro.